Enoteca San Guido, San Guido (Castagneto Carducci)

San Guido. Esterno notte. Difficile ignorare il grumo di simboli che questa minuscolo borgo dai tratti yorkshire riesce ad evocare: mani tese verso il duplice filare, cavalli da corsa lanciati a folle velocità sul rettilineo della storia. Vini con la stella dorata appuntata sul petto ricurvo dell’etichetta. A meno che non siate di ghiaccio, è inevitabile che un turbinio di emozioni vi faccia tremare le ginocchia. C’è aria di mito, qui. Mischiata al salmastro che spira dal Tirreno.

Così, deglutendo il groppo, si entra dentro San Guido e ci si scopre a mormorare una sorta di mantra tranquillizzante: “è solo un ristorante, è solo un ristorante, e solo un…”. Intanto si è oltrepassata la porta a vetri di quell’enoteca voluta personalmente dal marchese Incisa della Rocchetta. Lì, dove un tempo c’erano i lavatoi, oggi si cena a lume di candela. Ah, i nobili… L’ambiente è comunque caldo, una rapsodia neo-country. Ha pareti di vetro affacciate sulle stalle ormai disabitate dei purosangue, tavoli in ferro battuto e legno coperti da tovagliette di carta gialla, luce soffusa ed un nucleo interno dominato da un grande bancone. Non è un monumento al Sassicaia, né un mausoleo delle sue tante annate. Fortunatamente.

I gestori sono giovani(li) e lasciano raggiungere il tavolo semplicemente indicandolo col dito. Nel volgere di qualche minuto arrivano – in ordine sparso – il pane (buono, salato, dalla crosta marrone e dalla mollica candida), l’acqua e il menù. Quest’ultimo è stampato su di un rettangolo di carta colorata un po’ troppo home made per non stridere con l’atmosfera del luogo. Leggendolo si capisce subito che dalla cucina non potrà che uscire cibo tradizionale: antipasto toscano, zuppa di pane, le seppie in inzimino e via discorrendo. È sotto questi auspici che inizia la cena, articolata su poche portate: maltagliati al ragù bianco di anatra, brasato con cipolline glassate e torta ai due cioccolati. La scelta sembra apparire la più consona ai vini ordinati.

In breve tempo arriva il primo piatto. La sfoglia dei maltagliati è sottile, ben tirata e ottimamente amalgamata alla salsa. Quest’ultima, da parte sua, si difende egregiamente con polpe di volatile ancora succose e giusta untuosità. Purtroppo una persistente nota di alloro domina il ragù, afflosciandone così l’armonia complessiva. Il risultato è un primo piatto discreto ma monotono dalla prima forchettata (ottima), sino all’ultima (ancora una?).

Dopo una ponderata attesa, è la volta della carne brasata, adagiata in un grande piatto candido. La fetta, al centro, è nascosta dalla salsa; a lato le cipolline dorate. L’agrodolce, nota dominante della portata, la rende particolarmente appetitosa. Certo, un brasato tutto sbilanciato sull’acidità della salsa, anziché sulla matericità della carne e del suo collagene, è un abbinamento ostico per le bottiglie figlie di questo territorio. Non scatta la scintilla, semplicemente. Peccato veniale o difetto strutturale? Il dubbio inizia ad insinuarsi.

Al secondo segue una lunga pausa, durante la quale c’è tutto il tempo di far vivere (e piroettare) i vini nel calice sino all’estremità apparente della loro evoluzione. Un piacere interrotto solo dall’esaurirsi del liquido nel bicchiere.

La chiusura è affidata infine ad una doppia torta: micro fetta al cioccolato bianco e, speculare, micro fetta al cacao amaro. Uno Yin Yang da osteria, goloso ma un po’ giustapposto. Comunque la si giri (prima un morso di bianca, poi uno di nera; prima tutta la scura, poi la chiara – o viceversa, fate voi), è la torta al cacao amaro a sormontare l’altra. Una tirannide che, forse, poteva essere scongiurata scindendo il connubio e proponendo una delicata torta bianca o una intensa torta scura. Chiude un caffè (non espresso) molto buono, senza la tipica nota brulé di tanti ristoranti. Nessun accenno a distillati vari da parte dei due gestori. Ta bom. Dopo cotali vini, grappe e rum sarebbero gingilli superflui.

Ma, a questo punto, parliamo brevemente dei vini. Perché, siamo onesti, nessuno si avventura sino a San Guido solamente per la cucina. È quindi inevitabile che il côenologico risulti parte integrante della cena e del giudizio espresso su di essa. Non con pretenziose note di degustazione. Piuttosto con una considerazione sui “massimi sistemi” della ristorazione. Siamo nell’ombelico del mondo dei Supertuscans, sempre che la parola significhi ancora qualcosa. Dunque la scelta enologica non può che ricadere sui vini “della casa” (Le Difese, Guidalberto, Sassicaia), o su qualche loro più o meno blasonato cugino. E d’altra parte non ci sono alternative: qui la carta parla bolgherese. Punto e basta. Va da sé che etichette tanto ingombranti invochino una sponda nel cibo. In qualche modo necessitano di piatti costruiti ad hoc, capaci di assecondarne le nuance, di suonare all’unisono. Good vibrations, insomma. Purtroppo non avvertite né con il primo piatto, né con il secondo. Questione di scelte, si dirà. O di turnazione del menù. Al limite di congiunture. Forse. Ma è un “forse” poco convinto.

Conclusioni: Il conto è esemplare per onestà (con due piatti principali ed un dolce, si spendono 25€. Vini esclusi, of course). E questo aiuta a lasciare il tavolo soddisfatti, nonostante la scollatura percepita tra qualità media dei piatti e qualità media dei calici. Un ultimo sguardo allo scaffale che raccoglie le etichette italiane più amate dagli americani. Qualche passo per raggiungere la porta. Poi si è nuovamente fuori. San Guido è ancora lì. Nel silenzio sembra di sentire gli zoccoli nervosi di Ribot sgambare sul prato. E mentre l’infinita coda di un Sassicaia blandisce ancora la bocca (e l’anima), ecco che il mantra dell’inizio torna a risuonare. Guardi i cipressi e ripeti: “è stato solo un ristorante”.

Giudizio: 3 ganasce


Visualizzazione ingrandita della mappa

Facebook
Twitter
LinkedIn

Elephant Bistrot – Livorno.

All’inizio dell’Estate, mi son trovato in piazza Mazzini, ad una sorta di fiera in cui, stranamente, non c’era niente da mangiare. Ho

Il Caminetto – Montaione (Fi)

Per alcune circostanze che qui non interessano, mi sono trovato nei giorni passati a Montaione. Su segnalazione di una persona del posto,

10 risposte

  1. Le recensioni di Onnivoro fanno sempre scuola… Confrontando la sua assegnazione in ganasce con la mia ultima, mi rendo conto che la votazione di tre ganasce copre tipologie di locali diversissime tra loro. A meno che io non sia stato troppo generoso nel giudizio dato a “La Torretta”, e qui chiederei un parere alla “dirigenza” e ai veterani del sito.

  2. Non faccio parte della”dirigenza”, ma ormai mi considero un contributor anziano….ecco la mia risposta.
    Le tre ganasce hanno sempre coperto due tipi di locali molto diversi tra loro: la buona trattoria popolare dove si mangia bene senza tanti svolazzi e il ristorante più raffinato dove la cucina è buona ma qualcosa non ci ha convinto fino in fondo.
    Questo in effetti ha sempre generato un po’ di confusione.

  3. non ci portare gli psudobuongustai perse sennò ti buttano fuori a pedate nel culo,dammi retta,scriverlo qui’ è tempo perso e fiato buttato via. vedi altri post.

  4. Salve a tutti. Riprendo la questione giustamente sollevata da Durthu: la votazione in Ganasce. Si tratta di uno strumento di sintesi veramente utile per intuire in un istante di cosa si sta parlando, seppure i resoconti dei pasti siano poi da leggersi nella loro interezza per poter capire a pieno il senso della votazione. Solo il commento “analitico” può infatti specificare se le 3G sono riferite ad un’osteria semplice e corretta, ad una enoteca elegante ma non del tutto convincente o ad una altro tipo di locale. D’altra parte uno stesso voto è inevitabile che copra tipologie di locale differenti tra loro. Ganascia ha lasciato un post molto preciso a proposito, per quanto sia sempre difficile esprimere un voto secco.
    Detto questo, francamente non ho capito il senso del commento di ghiottone. Lo dico senza nessuna intenzione polemica: potresti chiarire meglio quello che scrivi? ciao e grazie.

  5. complimenti per questa ottima recensione, stavo pensando di fare un giro a bolgheri e castagneto tra qualche settimana e sto vagliando i papabili ristoranti!
    la tua recensione è stata linkata su Trivago

  6. mi spiace contraddire ma l’osteri enoteca s.guido ha l’aria cosi’ chic per l’eleganza e il saper fare dei proprietari…i nobili non ci combinano proprio.l’arredamento e’ di proprieta’ dei gestori e non dei nobili…

  7. Ciao Roberta. Più che contraddizione, mi pare, una precisazione la tua. E quindi anche io spiego meglio quanto ho scritto rispetto a questo argomento.
    Non metto in dubbio che il merito e la proprietà dell’arredamento siano dei proprietari (anche se, da quanto risulta dal sito ufficiale, il locale è in affitto: http://www.enotecasanguido.it/ita/index.asp).
    Volevo solo essere ironico rispetto alla decisione del “nobile” Marchese Incisa della Rocchetta di dedicare non un salotto di casa, ma i lavatoi all’apertura di un ristorante. Se poi le info del sito non sono (più) corrette, faccio mea culpa.
    Hai comunque fatto bene a precisare il merito dei proprietari/gestori per l’arredamento, che anche secondo me è di ottimo gusto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Accetto la Privacy Policy

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.